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Il ricordo e il rispetto di Aldo Moro richiedono verità.



RELAZIONE DI MARIA ANTONIETTA CALABRÒ


Dobbiamo ad Aldo Moro il rispetto e il ricordo per il cattolico, per il professore, per il politico, per l’uomo di Stato. Fa parte del

rispetto e del ricordo , far conoscere ai più giovani, alle successive generazioni di studenti, in particolare di questa Sua Università che affaccia sul piazzale a Lui dedicato, cosa oggi sappiamo di quello che gli è tragicamente successo.

Ebbene, nel giorno in cui 45 anni fa Aldo Moro è stato assassinato dalle Brigate Rosse, fa parte della giustizia conoscere meglio come sono andate le cose.

I lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta Moro2 istituita nel 2014 e i cui lavori si sono chiusi alla fine del 2018 grazie alla desegretazione di migliaia di documenti, a nuove indagini della polizia scientifica e dei Ris dei Carabinieri e a molte nuove

testimonianze, hanno permesso di mettere a fuoco i reali contorni di quella che lo stesso Valerio Morucci, il brigatista che fece la telefonata per indicare dove si trovava il cadavere di Moro, giusto un paio d’ore prima di oggi , 45 anni fa, definì “ l’operazione Fritz”. Quella operazione che oggi in base a quanto sappiamo possiamo chiamare “la più grande operazione della Guerra fredda, prima della Caduta del Muro di Berlino.”

Dalle nuove acquisizioni - ho personalmente analizzato un terabyte di documenti - è emerso anche quanto il papa Paolo VI ha fatto per Aldo Moro . E’ emersa la “trattativa vaticana” , che è sta pervicamente negata dagli stessi brigatisti. Oggi sappiamo che un

imprenditore israeliano raccolse 10 miliardi di lire per darli al Papa , un riscatto in cambio della vita di Moro.

Oggi sappiamo che il partigiano bianco Corrado

Corghi , tentò l’ ultima trattativa che avrebbe dovuto portare alla liberazione di Moro proprio il 9 maggio. “Sì, ricordo che questo nome me lo ha fatto Curioni”. Monsignor Fabio Fabbri , recentemente scomparso, per molti anni braccio destro del Capo dei cappellani delle carceri, monsignor Cesare Curioni, mi ha confermato in un’ intervista dell’aprile 2021 il ruolo svolto per tentare di liberare Moro da parte di Corghi, una figura di spicco del mondo cattolico, dal Dopoguerra agli anni Ottanta.

Corghi era di Reggio Emilia. Di lui si conosceva la propensione al dialogo con brigatisti storici come Alberto Franceschini, Franco Bonisoli, Roberto Ognibene e il carceriere di Moro, Prospero Gallinari. Tutti anche loro originari di Reggio Emilia. Era vicino a Castagnetti e a Bonferroni.

Finora, c’erano state ricostruzioni sul fatto che Corghi aveva cercato, arrivando a Roma, di interessare i ministri dell’epoca ad una trattativa. Ma non c’era stato ancora un testimone diretto che affermasse che Corghi poi abbia effettivamente avuto a che fare con la trattativa per Moro, e che questa trattativa gestita da don Curioni e che potremmo chiamare “vaticana” (che chissà perché ancor oggi alcuni esponenti

negano), sia andata avanti a lungo, fino al giorno dell’esecuzione dello statista Dc, cioè il 9 maggio di 45 anni fa.

Monsignor Fabbri ha dichiarato : “Sì, monsignor Curioni mi disse che Moro stava per essere liberato che per questo era vestito di tutto punto perché dove la visita medica al Policlinico Gemelli avrebbe dovuto andare in Vaticano. Quello che non mi spiego è che cosa c’entrasse il Cile”.

Il Cile, all’epoca, già in piena era Pinochet.

Ma questo combacia con il contenuto di quanto il presidente del Consiglio Giulio Andreotti affermò il 21 maggio 1978 durante il Consiglio dei ministri e riportato nel verbale pubblicato, a 43 anni di

distanza, (2021, quindi) da Miguel Gotor in una intervista a repubblica.it: “Un’ultima osservazione [intendo fare]: noi abbiamo fatto molto di più di quello che è apparso per liberare Moro (attività Gheddafi-Arafat) anche con trovate particolari con denaro e anche con proposte di scambi in altri Paesi (Cile). Il rimprovero ai socialisti non è quello di avere cercato una strada ma di averla pubblicizzata”.

Secondo Gotor Andreotti alludeva a uno scambio di prigionieri. “Credo che il riferimento – ha detto nell’intervista – sia al tentativo di liberare un prigioniero politico cileno rinchiuso nelle carceri del regime di Pinochet avviando così uno scambio di ostaggi come

avvenne nel 1973 fra Breznev e Pinochet”.

Solo dopo la morte di Corghi

( ottobre 2017 a 96 anni)

don Fabio Fabbri ha parlato dell’ultima prigione di Moro , quella in cui venne ucciso.

È di due mesi dopo, infatti, il 6 dicembre del 2017, la sua deposizione (subito secretata) davanti agli investigatori della Commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni. Don Fabbri afferma: “Voglio riferire un aspetto su cui mi riferì Curioni. Nei risvolti dei pantaloni dell’on. Moro al momento del ritrovamento del suo cadavere, fu rinvenuto del terriccio che io so essere del terriccio riconducibile ad una cantina di un’ambasciata che all’epoca

trovava sede nei pressi di via Caetani. Ambasciata attualmente non più attiva”.

Secondo una ricostruzione di Fioroni e mia basata su riscontri delle fonti diplomatiche dell’epoca, pubblicata nel libro di cui sono coautore (“Moro,il caso non è chiuso”), si trattava della cantina dell’allora residenza dell’ambasciatore del Cile, presso la Santa Sede.

È emerso solo relativamente di recente, però, dagli archivi della Stasi (il servizio segreto della ex Ddr) ed esattamente nel 2005, che il Cile (con il Sudafrica) era la nazione in cui la Stasi aveva la maggiore penetrazione al mondo, fino agli anni ’90. Così come sappiamo solo oggi che Salvator Allende era

strettamente supportato ma anche monitorato dalla Stasi.

E che la rete di Markus Wolf (“Il Lupo”), che in Europa controllava il terrorismo palestinese e la Rote Armee Frackion, alleata delle Br, rimase nel Paese, sudamericano anche dopo il golpe militare di Pinochet. Tanto che Erich Honecker, capo della Ddr dal 1971, in fuga da Berlino Est dopo la caduta del Muro (1989), trovò rifugio proprio in Cile, dove lo aveva preceduto la moglie e dove morì nel 1994, con Pinochet ancora al potere.

Nelle testimonianze rese alla Commissione Moro2 il 31 maggio e il 7 giugno 2017 dal professor Gaetano Lettieri, figlio di Nicola Lettieri, sottosegretario al ministero

dell’Interno, e responsabile dell’unità di crisi per la ricerca di Aldo Moro, ha riferito che nei dialoghi in famiglia, sia pure senza particolari esplicativi, il padre si riferì alla prigione di Moro con questa frase: “Ci stavamo seduti sopra”. E in effetti Palazzo Ruggeri si trova sul corso Vittorio Emanuele vicinissimo a piazza del Gesù, sede della Dc.

Via Caetani è una traversa di via delle Botteghe Oscure che si trova in senso opposto rispetto alla direzione che porta a piazza del Gesù e fu scelta perché verosimilmente molto vicina all’ultima prigione e al luogo dell’esecuzione, e immediatamente raggiungibile, senza particolari rischi, per gli assassini. Basta

girare l’angolo e percorrere non più di centocinquanta metri.

Ma monsignor Fabbri ha aggiunto nel 2021 anche un altro particolare: “Moro , mi disse Curioni, era stato vestito di tutto punto, perché stava per essere liberato, proprio quel 9 maggio. Così sapevano Curioni e il Vaticano”.

Invece l’ostaggio venne ucciso in modo efferato. Qualcun altro contrastò l’opera di Corghi. L’omicidio di Aldo Moro non è stato eseguito così come hanno riferito i brigatisti rossi. In particolare non è stato eseguito secondo quanto descritto nel cosiddetto “memoriale Morucci “. I brigatisti hanno fornito una versione “confezionata” e “fredda” ( una descrizione fatta come come da chi in realtà non ha

partecipato a un fatto così drammatico) su come avvenne l’esecuzione. Ad esempio non è possibile che Moro sia stato colpito nel bagagliaio della Renault rossa con il volto nascosto da una coperta). Moro è stato ucciso da qualche altra parte al di fuori dell’auto , in piedi, guardando negli occhi i duoi assassini.

Le nuove indagini dei Ris dei Carabinieri dimostrano inoltre che l’assassinio non poteva essere avvenuto nel box di via Montalcini, un box troppo piccolo per poterci sparare dentro.

Si è trattato infine di un delitto efferato : in base alla testimonianza del capo del Ris dei Carabinieri alla Commissione Moro 2 quella di Moro fu un’agonia molto lenta, circa 40

minuti, non ci fu nessun colpo di grazia. Morì per dissanguamento.

Il taccuino di appunti del 1978 della giornalista Sandra Bonsanti

( all’epoca capo della redazione romana de Il Giorno, il quotidiano du cui scriveva Moro ) consegnato alla Commissione Moro 2 riporta riscontri degli investigatori in quei giorni: Innanzitutto che non c’era un grande versamento di sangue nella Renault rossa ( il corpo invece ne ha perso quasi un litro). “Un’auto parla se la si lascia parlare” , le disse un investigatore, e “non aveva percorso più di centocinquanta metri fino a via Caetani “ dove venne ritrovata l’auto.

La brigatista Fulvia Miglietta nome di battaglia “Nora”, la compagna

del capo militare delle BR, Riccardo Dura, ha riferito al magistrato genovese Luigi Carli, coinvolto nel- le prime indagini sulla strage avvenuta il 28 marzo 1980 in via Fracchia, dove era rimasto ucciso Dura - e Carli lo ha ha testimoniato alla Commissione Moro 2 - che Aldo Moro era stato tenuto prigioniero in un sito prossimo al luogo dove venne abbandonato il suo cadavere. La Miglietta disse al magistrato di essere venuta a conoscenza di siffatta circostanza a Roma, dove aveva partecipato a una riunione di brigatisti.

Come si vede tutto quello che l’opinione pubblica conosce del cosiddetto «caso Moro» si basa in gran parte su una ricostruzione dei fatti ex post frutto di un

compromesso condensato nel Memoriale che prende il nome dal brigatista che telefonò al prof Tritto per far trovare il cadavere di Moro in via Caetani). Questo Memoriale più di trent’anni fa , servì a formulare una «verità accettabile» prima della Caduta del Muro di Berlino, sul sequestro e omicidio di Moro sia per gli apparati dello Stato italiano, sia per gli stessi brigatisti. Quest’abito su misura” si è mantenuto come l’unica narrazione pubblica condivisa ( rinforzata anche dalla forza visiva dei documentari Rai dell’epoca cui Morucci collaborò e dai film più recenti) nonostante anche nelle sentenze definitive della magistratura ( processo Moro

sexies) sono stati sollevati forti dubbi su di essa.

È il momento che “il muro di specchi” che ha impedito di vedere i veri contorni della più grande operazione della Guerra fredda venga ormai infranto.

Lo dobbiamo ad Aldo Moro, al papa Paolo VI , che ne morì di dolore, e alla storia dei cattolici democratici di questo Paese.

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