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PIGNATONE 1/2 TESTIMONIANZA DELL’AVVOCATO TRIZZINO IN COMMISSIONE ANTIMAFIA

di M. Antonietta Calabrò


Le indagini della Procura di Caltanissetta nei confronti degli ex pm di Palermo Giuseppe Pignatone e Gioacchino Natali hanno tratto impulso anche dall’audizione in Commissione parlamentare antimafia dell’avvocato Fabio TRIZZINO legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. La testimonianza in seduta pubblica, è avvenuta in due tranches: la prima che si è svolta nel pomeriggio del 27 settembre 2023. La seconda il successivo mese di ottobre 2023. Entrambi i resoconti stenografici, sono stati pubblicati nel gennaio 2024. Le audizioni vengono qui riprodotte per il loro valore documentale.

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Atti Parlamentari 

— 1 — Camera Deputati – Senato Repubblica 

XIX LEGISLATURA — DISCUSSIONI — ANTIMAFIA — SEDUTA DEL 27 SETTEMBRE 2023 

COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SUL FENOMENO DELLE MAFIE E SULLE ALTRE ASSOCIAZIONI CRIMINALI, ANCHE STRANIERE 

RESOCONTO STENOGRAFICO 


AUDIZIONE 

12. 

SEDUTA DI MERCOLEDÌ 27 SETTEMBRE 2023 


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CHIARA COLOSIMO 

I N D I C E 

PAG. 

  • Sulla pubblicità dei lavori: Colosimo Chiara, presidente 

  • Audizione di Lucia Borsellino e Fabio Triz­zino, legale di Lucia, Manfredi e Fiam­metta Borsellino: 

  • Colosimo Chiara, presidente 

  • Borsellino Lucia

  • Trizzino Fabio, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino 

PAGINA BIANCA 

Atti Parlamentari — 3 — Camera Deputati – Senato Repubblica XIX LEGISLATURA — DISCUSSIONI — ANTIMAFIA — SEDUTA DEL 27 SETTEMBRE 2023 


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CHIARA COLOSIMO 

La seduta comincia alle 13.35. 

Sulla pubblicità dei lavori. 

PRESIDENTE. Avverto che se non vi sono obiezioni la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche i resoconti sono stati tra­mite impianto audiovisivo a circuito chiuso nonché via streaming sulla web-tv della Camera. 

Audizione di Lucia Borsellino e Fabio Triz­zino, legale di Lucia, Manfredi e Fiam­metta Borsellino. 

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca l’audizione di Lucia Borsellino e Fabio Triz­zino, legale di Lucia Manfredi e Fiammetta Borsellino, a cui do il benvenuto e che ringrazio per essere qui, non soltanto per­ché questo è un passaggio fondamentale nella storia d’Italia ma perché so che que­sto ha un coinvolgimento anche umano importante, quindi capisco la difficoltà e per cui i ringraziamenti sono doppi. 

Voglio ricordare che la seduta odierna si svolge nelle forme di audizione libera ed è aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione, che i lavori potranno proseguire in forma segreta a richiesta degli auditi oppure dei colleghi, ovviamente in tal caso non sarà più con­sentita la partecipazione da remoto e verrà interrotta la trasmissione via streaming sulla web-tv. 

Qualora la presente audizione non do­vesse concludersi nella giornata odierna, il suo seguito nonché gli interventi dei colle­ghi saranno oggetto di una seduta che ho intenzione di convocare la prossima setti­mana. Questo lo dico a garanzia della ne­cessità di non contingentare in alcun modo né i tempi per gli auditi né per i commis­sari. 

A questo punto, ringraziando ancora della presenza e chiedendo ai commissari l’attenzione dovuta al tema, do la parola a Lucia Borsellino. 

LUCIA BORSELLINO. Saluto tutti i pre­senti e saluto e ringrazio il presidente Co­losimo per questa opportunità. Io sono qui anche in rappresentanza di mio fratello Manfredi e di Fiammetta Borsellino, che attraverso me la ringraziano, presidente, non soltanto per avere invitato la mia per­sona ma anche per aver consentito l’audi­zione di mio marito, l’avvocato Fabio Triz­zino, che è anche legale e che rappresenta me e i miei fratelli, insieme con l’avvocato Vincenzo Greco del foro di Palermo, nei processi che riguardano la strage di via D’Amelio, come parti civili, presso il com­petente tribunale di Caltanissetta. 

Essere qui per me oggi è un onore ma anche un onere non indifferente, per l’im­pegno che circostanze come questa richie­dono sotto il profilo emotivo. Parlare di fatti strettamente riguardanti la mia fami­glia, e quindi la mia vita, ci costringe in occasioni come questa a mettere a dura prova la nostra sensibilità di fronte a fatti che devono riemergere chiaramente dalla nostra memoria, per cui sono sempre delle incursioni che a volte destrutturano la fa­ticosa ricerca anche di un equilibrio inte­riore che abbiamo perseguito in tutti questi trentun anni che ci separano dalla morte di mio padre. 

Detto questo, dico che in quanto figlia di Paolo Emanuele Borsellino, avendo convis­suto con lui insieme con mia madre Agnese Piraino e ai miei fratelli Manfredi e Fiam-metta fino all’ultimo giorno della sua vita, che è stata stroncata a Palermo, in via D’Amelio, il 19 luglio del 1992, noi siamo testimoni diretti di vita vissuta con mio padre. Nel senso che abbiamo condiviso e supportato le sue scelte e lo abbiamo ac­compagnato in ogni dove e abbiamo as­sunto su di noi anche i rischi che queste scelte comportavano in maniera assai con­sapevole. Rischi che si sono estesi anche post mortem, in quanto tutto questo non è bastato per metterci al riparo, seppure sui figli, anche da tentativi di delegittimazione. 

In quanto testimoni siamo stati ascoltati di fronte all’autorità giudiziaria in diverse occasioni. 

Per quanto riguarda la mia persona, sono stata convocata per la prima volta solo a partire dal 19 ottobre 2015 nell’am­bito del processo cosiddetto « Borsellino quater », cui è seguita poi un’altra audi­zione il 14 luglio 2016, sempre nell’ambito dello stesso processo, per poi il 3 dicembre 2018 ritornare in aula insieme con mio fratello Manfredi nell’ambito del processo cosiddetto « Depistaggio » contro gli ex po­liziotti Mario Bo ed altri afferenti al nucleo investigativo denominato « Falcone e Bor­sellino ». Prima di allora soltanto mia ma­dre è stata sentita nel marzo del 1995, eravamo ancora al processo « Borsellino 1 », e successivamente nell’agosto 2009 e, se non vado errata, nel gennaio del 2010. 

In tutte queste circostanze le nostre testimonianze hanno messo a fuoco mo­menti di vita vissuta con mio padre, so­prattutto negli ultimi 57 giorni che sono intercorsi tra le stragi di Capaci in cui persero la vita Giovanni Falcone, France­sca Morvillo e i tre agenti della loro scorta e la strage di via D’Amelio, in cui persero la vita anche cinque agenti di scorta insieme a mio padre. 

In particolare mia madre ha testimo­niato in ordine anche a confidenze diret­tamente ricevute dal marito, ancorché egli avesse ritenuto proprio di trasferirle nei modi come era consueto fare. 

Dico ciò perché, finché è stato in vita, mio padre ha sempre cercato di tutelare gli altri componenti del suo nucleo familiare, in quanto il suo rischio era verosimilmente potenziato dall’avere un nucleo familiare composto da altre quattro persone che molto spesso camminavano con lui. 

Dico ciò in quanto le nostre testimo­nianze non potevano chiaramente scaturire da conoscenza diretta di atti o documenti inerenti al lavoro di mio papà, in quanto sia mia madre, per l’enorme rispetto che poneva nei riguardi del lavoro di mio padre e il dovuto riserbo che papà teneva sul suo lavoro, che noi figli, poco più o poco meno che ventenni all’epoca dei fatti, non pote­vamo certo conoscere il contenuto di atti e documenti. Oggi col senno di poi me ne rammarico, perché avrei voluto offrire un contributo molto più significativo come fi­glia ma ancor più come cittadina, ma evi­dentemente avrei fatto anche più fatica a ottenere l’equilibrio che siamo faticosa­mente riusciti a raggiungere, perché chia­ramente per dei figli poco più che adole­scenti venire a conoscenza diretta anche di documenti o atti inerenti la vita lavorativa di papà, e quindi anche elementi di detta­glio molto più approfonditi, ci avrebbero turbato non poco, vieppiù anche nelle fasi successive dopo la sua morte. Dico questo anche con riferimento ai contenuti dell’a­genda rossa, di cui mia madre peraltro è stata la prima testimone nei giorni imme­diatamente successivi al compiersi della strage. 

La mamma ha testimoniato sull’esi­stenza di questa agenda; pur non conoscen­done chiaramente i contenuti, capiva per­fettamente quanto questo strumento fosse prezioso dal momento che mio padre non se ne separava mai e lo vedeva spesso annotare su di esso appunti e impegni di lavoro. 

Il ritrovamento dell’agenda grigia nella mia abitazione è stata frutto, infatti, della pervicacia mia e di mio fratello, che sol­tanto dopo la morte di papà abbiamo cer­cato, in un’ottica estremamente collabora­tiva con l’autorità giudiziaria, di perlu­strare ogni angolo della nostra abitazione pur di reperire atti e documenti che potes­sero essere utili ai fini investigativi. 







Oggi siamo qui per offrire ancora una volta, non me ne vogliate, un tributo di riconoscenza ai miei genitori per averci donato la vita, ma soprattutto ai familiari delle vittime, con le quali ci accomuna questo dolore. E poi anche per i nuclei familiari che faticosamente abbiamo co­struito successivamente, per i nostri figli. 

Perché, vedete, si può accettare sicura­mente una morte per cause naturali perché si ha l’opportunità di accompagnare un proprio caro fino alla fine, nel caso di mio padre, sì, un accompagnamento c’è stato ma sicuramente non quello che avremmo voluto. 

Ed è proprio la strage del 19 luglio che ha segnato profondamente la nostra vita, non solo del mio nucleo familiare origina­rio ma anche dei nuclei familiari che ab­biamo costituito successivamente, esten­dendo i propri effetti in maniera indelebile e irreversibile anche sulle nuove genera­zioni, a partire dai nostri figli. 

Quindi sono qui oggi perché a parte le date che vi ho ricordato, nelle quali ab­biamo reso testimonianza, noi abbiamo agito in tutti questi anni, avendo fiducia piena nelle istituzioni, in quanto la nostra vita è stata permeata al senso del più alto rispetto delle istituzioni, così come ci ha insegnato nostro padre, avendole assunte sempre come presidio principale di garanzia di legalità e giustizia. Tuttavia, l’esserci resi conto che il corso delle indagini sulla strage nella quale mio padre perse la vita stesse per rivelare il determinarsi di gravissimi depistaggi, così come poi si è accertato si siano determinati già il giorno stesso, a partire dal giorno stesso del compimento della strage, ci ha portato a impegnarci più direttamente non solo con la partecipazione diretta alle udienze dei processi che si sono svolti al tribunale di Caltanissetta, insieme con i nostri legali, ma anche con la formulazione di precise e circostanziate istanze volte alla ricerca della verità, che abbiamo rappre­sentato sia in sedi pubbliche per voce an­che in un certo periodo di mia sorella Fiammetta, ma anche in tutte le possibili sedi istituzionali, anche le più autorevoli. 

Oggi siamo qui per riproporre anche queste istanze volte alla conoscenza piena della verità sulla strage di via D’Amelio. 

Chiediamo che le componenti statuali, competenti a vario titolo e livello, possano far piena luce senza pregiudizi e senza condizionamenti su quelli che sono stati i particolari dettagli della vita di mio padre, documentati in atti e testimonianze dirette, che hanno caratterizzato gli ultimi mo­menti della sua vita, soprattutto nei 57 giorni tra le due stragi. 

Chiediamo questo perché siamo con­vinti, dopo aver assistito in tutti questi anni al percorrere anche di piste investigative, alcune delle quali sono giunte alla loro definizione giudiziaria, ci siamo convinti che le altre piste che sono state solcate non hanno del tutto, o addirittura in alcuni casi assolutamente, considerato atti, documenti e prove testimoniali che potessero fornire degli elementi a nostro avviso indispensa­bili per comprendere il contesto nel quale mio padre operava e il profondo stato di prostrazione e di isolamento nel quale ha vissuto fino agli ultimi giorni della sua vita. E di cui, ripeto, siamo testimoni. 

Le nostre richieste sono nel massimo rispetto dell’operato delle istituzioni, senza alcuna pretesa di volere sostenere una tesi piuttosto che un’altra perché noi non siamo tecnici, lo sono i nostri avvocati, tecnici del diritto, lo sono i magistrati ma certamente non noi figli, non ci compete. Pur non volendo sostenere alcuna tesi e non avere la pretesa di conoscere la verità, quella che vogliamo offrire oggi è una ricostruzione operata su una mole di atti, documenti e testimonianze che grazie al lavoro di mio marito, e ringrazio per questo il presidente per avere consentito l’audizione del nostro legale, vorremmo rassegnare degli elementi a questa Commissione che possono essere suscettibili di ulteriore approfondimento con il rigore logico che questi documenti meritano, per lo scopo che ci siamo pre­fissati e che credo trovi in voi un obiettivo comune. 

Lo vogliamo perché si faccia chiarezza, perché il diritto alla verità non sia un’os­sessione della famiglia Borsellino o degli altri familiari delle vittime. Il diritto alla verità è un diritto che appartiene all’intera collettività e noi pensiamo che sia doveroso consegnare alle nuove generazioni la nar­razione fedele di ciò che realmente è ac­caduto in quella fase drammatica della storia del nostro Paese oltre che della no­stra famiglia. 

PRESIDENTE. Grazie a Lucia Borsel­lino. Io credo che non ci sia nulla da aggiungere, se non che il compito che que­ste ultime sue parole ci affidano è un compito gravoso, ma che se fatto con tutti i criteri e con tutte le modalità non farà altro che dare il miglior servizio all’Italia. Perché il diritto alla verità e alla piena luce è sì un diritto di chi oggi è qui audito, ma è un diritto di tutta la comunità nazionale e di tutti coloro che in questi anni sono morti per mano della criminalità organiz­zata. 

Per cui, Lucia, certamente noi non ab­biamo alcun esito già scritto, noi vogliamo fare piena luce, soprattutto partendo da quello che fin qui non è stato detto. 

E per questo lascio la parola all’avvo­cato Trizzino. 

FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Man­fredi e Fiammetta Borsellino. Grazie. Io volevo salutare il presidente Colosimo, la ringrazio per avermi invitato. Ringrazio voi tutti per la pazienza, ma data la delicatezza dei temi che dovrò trattare questa pazienza si impone. 

Perché, vedete, nella ricostruzione che mi accingo a fare ho seguito un metodo rigoroso di indagine, proprio perché questa ricostruzione dei fatti per certi versi potrà in qualche modo sollevare più che un in­terrogativo. 

Perché, vedete, Paolo Borsellino io me lo immagino in questo momento dietro di me con una foto, con quella foto gigantesca, in cui si trova da solo nei corridoi del palazzo di giustizia. Un palazzo di giustizia che era diventato per lui, e ve lo dimostrerò, un luogo in cui probabilmente non si trovava più a proprio agio. Tant’è vero che a di­stanza di anni poi abbiamo saputo che, appunto come diceva Lucia al culmine della sua prostrazione psicofisica di quei giorni, lo ebbe a definire un « nido di vipere ». 

È un modo di esprimersi del dottor Borsellino assolutamente inconsueto. Chi ha conosciuto Borsellino sa che viveva il proprio ruolo di magistrato, ma soprattutto viveva l’istituzione magistratuale con il mas­simo del rispetto possibile. Quindi do­vremmo cercare di capire perché quel­l’uomo a un certo punto definì il suo ufficio un nido di vipere. 

D’altra parte vi devo dire che l’interesse per la ricostruzione che io vi farò nasce anche da un dato puramente di strategia comunicativa. Vedrete che questa indagine si fonderà in gran parte rigorosamente su dichiarazioni provenienti da testi qualifi­cati, perché colleghi. Ma non soltanto per questo, perché l’attendibilità intrinseca del dichiarante verrà sostanzialmente riscon­trata estrinsecamente dall’incrocio di altre dichiarazioni nel frattempo raccolte e che quindi convergono tutte logicamente verso l’accertamento della circostanza da dimo­strare. 

C’è un problema di strategia comunica­tiva, perché in tutti questi anni è stata riportata la testimonianza resa dalla si­gnora Agnese, dalla vedova Piraino, in cui Paolo Borsellino, al culmine del senso di morte incombente che ormai era per così dire inevitabile (poi vedremo se era vera­mente inevitabile questa morte, se questo sacrificio era evitabile), a un certo punto (se voi cliccate su Google « frasi famose di Paolo Borsellino » vi sono anche delle co­pertine di libri che riportano questa frase) lui dice alla moglie, e la moglie ne fa testimonianza alla procura della Repub­blica di Caltanissetta: « Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri ». 

Ebbene, è stato costantemente espunto, censurato in questa definizione il riferi­mento « ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri ». « I miei colleghi ». 

Se noi incrociamo, quindi, questa con­fidenza del dottor Borsellino con la testi­monianza del 2009 riconfermata nel 2011 dalla dottoressa Alessandra Camassa e dal dottor Massimo Russo, in cui ci dicono che il dottor Borsellino definisce il suo ufficio un nido di vipere, noi allora dobbiamo andare a cercare dentro l’ufficio della pro-cura di Palermo per vedere se allora si posero in atto condotte che in qualche modo favorirono quel processo di isola­mento, delegittimazione e indicazione come target e obiettivo di Paolo Borsellino, che sono quelle condizioni essenziali che hanno sempre preceduto gli omicidi eccellenti a Palermo. Quindi, giocoforza, andare a ve­dere rigorosamente, epistemologicamente attraverso un metodo rigoroso, se già nel 1992 vi erano elementi sulla cui base rico­struire le dinamiche comportamentali che avevano potuto giustificare quell’afferma­zione incredibile per chi ha conosciuto il giudice Borsellino, che lo ha portato a definire il suo ufficio un nido di vipere. 

Ebbene, da questo punto di vista è stato per noi un dolore immenso e incommen­surabile avere scoperto che già dal luglio del 1992 esistevano dei verbali dell’audi­zione dei magistrati della procura di Pa­lermo, in cui vuoi per la vicinanza rispetto al fatto eclatante, cioè la strage, vuoi per­ché in quella procura vi era un malessere che covava da tempo, i magistrati di allora furono sinceri e privi di qualunque freno inibitorio nel racconto delle dinamiche messe in atto dal procuratore Giammanco, che resero di fatto impossibile la vita di un magistrato valoroso e valente come il giu­dice Paolo Emanuele Borsellino. 

La cosa gravissima che io denuncio in questa sede è che il dottor Pietro Giam­manco non è mai stato sentito nell’ambito dei procedimenti per strage. 

Giammanco è stato sentito dalla pro­cura di Caltanissetta nell’ambito di altri procedimenti, di cui parleremo più avanti, relativi alla cosiddetta illecita divulgazione di quello che giornalisticamente viene chia­mato il rapporto mafia appalti, ma che io tecnicamente definisco comunicazione no­tizie di reato così definita: annotazione relativa alle attività di polizia giudiziaria esperita in merito a un’associazione per delinquere di tipo mafioso, strutturalmente inserita nell’organizzazione denominata cosa nostra, tendente ad acquisire la gestione o comunque il controllo delle attività econo­miche di concessioni, di autorizzazioni, ap­palti e servizi pubblici nel territorio della regione Sicilia. Volgarmente e giornalisti­camente detto « dossier mafia appalti ». 

Cercheremo quindi attraverso questa ri­costruzione di ancorare su dati certi e inoppugnabili, così come deve fare lo sto­rico e non solo il giurista. Qui siamo in sede di ricostruzione storica, e questo è (non me ne voglia la presidente) il significato che in ambito processuale in qualche modo non si è riusciti ad avere la verità, quindi ci è toccato spostare il piano della ricostru­zione sul versante storico. Ma proprio per rendere questa ricostruzione la più strin­gente e precisa possibile, i canoni applica­tivi e il metodo epistemologicamente se­guito da me nella ricostruzione è come se fossi in un ambito strettamente proces­suale, quindi con i limiti derivanti, per esempio, dall’attendibilità delle dichiara­zioni di chi le fa. E vi posso fin da subito dire che è stato mio dovere, nella ricostru­zione che vi proporrò, innanzitutto pro­porvi dichiarazioni che hanno superato il vaglio delle corti d’assise finanche in Cas­sazione. 

Ho evitato anche l’estrapolazione fram­mentaria di una dichiarazione da un ver­bale, piuttosto che un’altra, perché questo a volte costituisce elemento che può inge­nerare confusione se non si porta il carat­tere completo della dichiarazione. Perché magari, nel corso di una sentenza, una dichiarazione viene riportata ma appena sopra o appena sotto quella dichiarazione viene smontata. 

Quindi vi proporrò delle dichiarazioni che dovrò leggere qualche volta, perché vi rendiate conto che dietro questa mia atti­vità c’è un lavoro massacrante, la lettura di 19 sentenze sulla strage di via D’Amelio, la lettura del rapporto dei ROS, 900 pagine, dell’informativa Sira, altre 600, dell’infor­mativa Caronte altrettanto, verbali della commissione. Non so neanch’io quante cose ho letto. 

Allora, proprio per rendere la mia ri­costruzione onestamente attendibile, vi dico che laddove ci saranno contrasti, laddove le dichiarazioni presentano elementi di con­trasto io li farò presenti. E sulla base, poi, di altri elementi che andremo a incrociare da questa incredibile messe di atti pro-porrò una conclusione logicamente accet­tabile, ma credetemi solo sulla base di un criterio invalso nella giurisprudenza in re­lazione all’interpretazione dell’art. 192 del codice di procedura penale. 

Sono contento di essere qui. Vorrei ri­cordare una citazione di Sciascia. Sciascia, commentando una dichiarazione alla Ca­mera del 26 febbraio 1980, commentando la Relazione di minoranza dell’onorevole Niccolai, ebbe a dire: « Io sono stato inter­vistato a Palermo dalla televisione francese e la televisione francese mi ha chiesto per­ché io avessi dubbi sui lavori di una Com­missione parlamentare antimafia ». Scia­scia dice: « Se fosse venuta la televisione italiana avrei risposto ugualmente come ora vi dico ». Sciascia dice: « Assoluta­mente, io non ho mai messo in dubbio... » È un dibattito mai sopito quello, ancora oggi attuale, circa il fatto che la nostra presenza qui abbia un significato impor­tante. Io ritengo che sia per noi un mo­mento di passaggio istituzionalmente fon­damentale. Sciascia dice: « No, io non ho mai voluto dire che i lavori della Commis­sione non sono importanti. Anzi, le dirò di più. Ci sono cose utili, si evince per esem­pio chiaramente che i marescialli dei ca­rabinieri e i marescialli di pubblica sicu­rezza quasi sempre hanno fatto il loro dovere, ma è più in alto che non si è fatto quello che si doveva fare ». 

Fatta questa citazione e date queste premesse, l’oggetto della nostra ricostru­zione (che, ripeto, è una ricostruzione che vuole offrire a voi spunti per un approfon­dimento) vuole dimostrare sostanzialmente una cosa, che è stata un po' negletta e trascurata, benché le sentenze passate in giudicato (Borsellino ter, Borsellino quater in particolare) hanno sempre posto l’ac­cento sull’interesse di Paolo Borsellino, sulla scorta del pregresso interesse di Giovanni Falcone, sull’indagine denominata « Mafia appalti ». 

Per capire l’importanza e le potenzialità investigative di questo dossier vorrei so­stanzialmente darvi qualche piccola coor­dinata di contestualizzazione storica, cioè nel momento in cui si calano le stragi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino e le indagini dei ROS. 

Il 1992 si apre con la conferma in Cas­sazione della sentenza del maxiprocesso. Nel febbraio 1992 accadono due episodi importanti, totalmente divaricati, total­mente non assimilabili, perché avvengono uno a nord e l’altro al sud. Il 17 febbraio 1992 (se sbaglio qualche data è documen­tale, capite bene quante date devo tenere a mente) viene arrestato Mario Chiesa, il presidente del Pio Albergo Trivulzio. Ven­gono trovate nel suo ufficio due mazzette, 50 milioni nel cassetto e poi 10 milioni in una busta che gli era stata consegnata dall’imprenditore delle imprese di pulizia che, messosi d’accordo con la polizia giu­diziaria guidata dal dottor Antonio Di Pie­tro, organizzano il blitz e lo arrestano in flagrante. Egli tenta in maniera abbastanza ridicola di lanciare nel water quella busta e di accampare delle scuse, per evitare l’arresto in flagranza, che quei soldi erano roba sua e che non c’entravano niente con le mazzette. Ebbene, dalla mazzetta di dieci milioni nel novembre siamo arrivati alla megatangente Enimont. Questo rapporto a mio giudizio, nella sua imperfezione, so che non era perfetto, ma adeguatamente svi­luppato il rapporto era molto di più che una mazzetta. Esso, adeguatamente svilup­pato, avrebbe mirato al cuore del sistema. 

Vi è un’altra data importante, il 24 feb­braio Riina subisce l’ulteriore batosta, quella definitiva, cioè la condanna per il processo di Emanuele Basile. Lì c’è un tentativo di avvicinamento da parte del notaio Ferraro con il giudice Scaduti per cercare di am­morbidire la sentenza, devo dire che il giudice Scaduti per fortuna parla con il dottor Borsellino, il quale gli consiglia di fare una relazione di questo tentativo di corruzione. Grazie a quella relazione, Sca­duti in qualche modo ha evitato secondo me guai grossissimi. Però Paolo Borsellino, ritornando a casa, disse alla moglie: « Me la faranno pagare, perché la vicenda di Basile mi perseguita ». 

Voi dovete sapere che l’odio di Salvatore Riina nei confronti di Paolo Borsellino è antecedente a quello nei confronti di Gio­vanni Falcone. Borsellino era odiato, era considerato da Riina (scusate l’espressione) « un grandissimo cornuto inavvicinabile ». 

L’altro evento importante avviene il 12 marzo 1992, l’assassinio dell’eurodeputato Salvo Lima. 

La storia si è incaricata di definire il ruolo di Riina nello scacchiere siciliano. 

Il 5 aprile 1992 il corpo elettorale, de­mocraticamente, dà il primo colpo serio al sistema partitocratico, di fatto dando ap­punto la possibilità alla Lega di raggiungere il 25 per cento in Lombardia e il 9 per cento su base nazionale. Vi prego di non considerare il 9 per cento di allora con riferimento ai tempi di oggi, perché il 9 per cento di allora, in cui ancora il sistema morente ma pronto a giocarsele tutte prima di crollare, il 9 per cento era un grimaldello devastante, che nel coagulare il malcon­tento degli italiani stava dando l’ulteriore colpo a un sistema partitocratico già in crisi per effetto dell’onda lunga derivante dal crollo del Muro di Berlino e quindi degli equilibri politici che avevano dal 1948 retto l’Europa e quindi l’Italia in partico­lare. 

Il 28 aprile 1992 Cossiga si dimette. L’ultimo anno di Presidenza della Repub­blica di Cossiga si connotò quale effetto dell’onda lunga della caduta del Muro di Berlino. Egli si dimette perché sa che sta arrivando lo tsunami delle indagini di Mani Pulite, sa che non può nel semestre bianco avere alcun potere di formalizzare una crisi di governo, sa che c’è un popolo ita­liano inviperito da quello che man mano emerge dalle inchieste milanesi, quindi ha la necessità di fare il passaggio di consegne onde consentire a un Presidente della Re­pubblica nei pieni poteri eventualmente di sciogliere e formalizzare una crisi qualora Presidenti di consiglio incaricati o in carica potessero essere raggiunti da avvisi di ga­ranzia. 

Prima di arrivare al 28 aprile c’è qual­cosa che devo ricordare, c’è l’omicidio il 4 aprile 1992 del maresciallo Guazzelli ad Agrigento. Lo devo ricordare perché a que­sto farò riferimento nel corso della mia relazione. 

Il 23 maggio 1992 muore Falcone e si sblocca l’impasse parlamentare per l’ele-zione del Presidente della Repubblica. Il 28 giugno 1992 giura il Governo Amato. Il 10 luglio 1992, di notte, il Governo Amato, per impedire che l’Italia fuoriesca dal sistema monetario europeo, con un decreto-legge dispone il prelievo forzoso dai conti cor­renti degli italiani (di una somma irrisoria, per carità lo 0,06 per cento). Cosa sarebbe potuto accadere se quegli italiani a cui venne fatto il prelievo forzoso avessero scoperto che i politici erano invece lì non solo a rubare, sostanzialmente a utilizzare la spesa pubblica, gli enti pubblici econo­mici, come una gallina dalle uova d’oro da cui sostanzialmente ricavare gli elementi per il sostentamento di un sistema degene­rato e arricchimenti personali ? 

Voi vi rendete conto che ci sono ragioni serie di allarme per reagire nei confronti di magistrati che volevano appunto scoprire quel malaffare. 

Questi sono dati che vanno considerati prima ancora di entrare, perché dal punto di vista storico il crollo del Muro di Berlino ha degli effetti che non si rivelano imme­diatamente, ma si diffondono in un arco di tempo più o meno lungo. In Italia l’ondata è arrivata intanto nel 1990 con le inchieste su Gladio, la rivelazione dell’esistenza di un sistema di controspionaggio quali stay behind e poi tutto il resto. Cioè il sistema è co­stretto a tirar fuori tutti gli elementi che, se giustificabili in un’ottica di contrapposi­zione tra NATO e Paesi dell’Est, ora non sono più giustificabili. Allora resta un si­stema che gli manca solo che i cittadini italiani scoprano, attraverso delle indagini fatte seriamente, che il punto d’incontro tra mafia, politica ad alti livelli, imprendi­toria soprattutto di rilevanza nazionale, e quello dell’erosione della spesa pubblica, questi sono elementi che a mio giudizio fanno diventare recessiva l’applicazione di paradigmi interpretativi volti, per esempio, a rinfocolare l’eversione di Destra o di Sinistra. Perché l’eversione di Destra o di Sinistra aveva una sua giustificazione in una logica sostanzialmente di contrapposi­zione fondata sul vecchio equilibrio. Il vec­chio equilibrio è finito e qui si sta rivelando in tutta la sua oscena rappresentazione la degenerazione del sistema partitico, della partitocrazia. 

Paolo Borsellino era solito dire che la mafia e la politica hanno in comune una cosa: il controllo del territorio. 

La lettura del rapporto Mafia-Appalti è la materializzazione, a nostro sommesso avviso, di questa tregua, di questa pace, di questo accordo. È chiaro che essendoci dall’altra parte l’associazione mafiosa ogni tanto essa fa valere il suo peso di associa­zione. 

Quando vi dicevo che il rapporto per certi versi è imperfetto, lo dico nel mo­mento in cui dà una visione panmafiosa della illecita gestione. Perché in realtà l’e­sistenza dei comitati d’affari sono un prius rispetto all’associazione mafiosa. Tant’è vero che gli stessi magistrati, giustamente, nella richiesta di arresto del 25 giugno 1991 riconoscono che l’avvicinarsi della mafia alla gestione illecita degli appalti è un cli­max, cioè si passa da fasi di parassitismo – faccio pagare il pizzo per il territorio in cui insiste l’opera pubblica da realizzare – a un sistema di infiltrazione sempre più pre­ponderante. 

Ma l’acqua piovana per infiltrarsi deve avere un tetto da cui infiltrarsi e in cui infiltrarsi, gli accordi tra politici e grandi imprese precedono, il sistema delle com­bine precede il co-protagonismo di cosa nostra. Perché è un disegno egemonico specifico di Salvatore Riina quello di pre­tendere, visto che il sistema dei partiti sta crollando, attraverso l’istanza economica, agganciando i grandi imprenditori nazio­nali, di raggiungere le sedi del potere. 

L’aleatorietà dei punti di riferimento, conseguente al processo irreversibile di di­sgregazione del sistema partitocratico, im­pone alla mafia di ridisegnare i collega­menti e i meccanismi di controllo, perché la politica non può essere più il campo della mediazione. Questo è andato bene nel vecchio sistema, quando tutti, chi da una parte e chi dall’altra, per fini diversi, ave­vano l’interesse a ottenere il controllo del territorio. La politica in termini di assisten­zialismo clientelare e di controllo dell’elet­torato, la mafia in termini di controllo del territorio tout-court, in una interazione co-stante reciproca di totale tentativo di pla­smare in tal modo una società civile capace di andare oltre le dinamiche e i contrasti all’interno di una stessa organizzazione po­litica. 

In altri termini, quel sistema di potere che si era in qualche modo consolidato da circa trent’anni in Sicilia, dagli anni Ses­santa fino alle stragi del 1992, andava bene a tutti. 

Io vi leggerò, se volete, un’intercetta­zione tra Domenico La Cavera, consigliere di amministrazione della Sirap, ed Ema­nuele Macaluso, in cui si parla dello studio di via Sciuti di Ciancimino in cui tutti si recavano a prendere la loro parte di tan­gente, e ridono nell’ambito di quella tra­scrizione. 

Io trovo tutto questo sommamente im­morale, lo trovo sommamente immorale. 

La conventio ad excludendum riguar­dava il Partito Comunista ed era una con­ventio ad excludendum nel senso che la mafia non aveva un’ideologia, non ha mai avuto un’ideologia, ma sicuramente non ha mai detto votate per il Partito Comunista. 

Il Partito Comunista, attraverso il si­stema delle cooperative, aveva un modo indiretto di partecipare alla gestione della torta. La conventio ad excludendum era per il Movimento Sociale, Destra nazionale, in quanto se c’è una cosa che ha sostanzial­mente sempre unito, in Sicilia in partico­larmente, mafia, clero, politica, l’antifasci­smo da un lato e l’anticomunismo dall’al­tro. 

C’è da dire che tutto questo, come ve­dete, ci fa comprendere che cosa ? 

Ci fa comprendere innanzitutto l’impor­tanza del dossier. Ripeto, è un atto imper­fetto, non possiamo considerarlo un rap­porto perfetto. Così come non era perfetta la mazzetta di Chiesa, però alla fine si è arrivati alla megatangente Enimont. Biso­gnava starci sopra. 

D’altra parte Falcone, che ne sollecitò la consegna nel febbraio del 1991, disse in un dibattito che bisognava in qualche modo riaffinare le metodologie di indagine, anche perché ormai, disse, esiste una centrale unica. Non centrale mafiosa. No, parla di centrale unica degli appalti. 

Ho risentito la registrazione, perché ho letto da qualche parte che si parlava di centrale mafiosa. No, Falcone dice « cen­trale unica degli appalti » in cui sono coin­volti tutti. E lo dice a Castello Utveggio nel marzo del 1991. 

Mi interessava fare questa premessa per­ché è importante calare l’interesse prima di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino per il rapporto del ROS, perché altrimenti non si capisce l’importanza dell’interesse stesso e dell’indagine e perché è possibile, in un’ot­tica preventiva, che siano stati entrambi assassinati. 

Nel caso di Borsellino l’elemento è an­cora più importante laddove si consideri che l’accelerazione dell’esecuzione della strage non ha senso guardando agli inte­ressi puri e semplici dell’organizzazione di Salvatore Riina. 

Voi sapete meglio di me che era in discussione la conversione in legge del de­creto-legge dell’8 giugno del 1992, con cui, come secondo pacchetto di norme voluto da Giovanni Falcone, finalmente si dota la magistratura, le forze dell’ordine e chi deve sul territorio combattere la mafia, di un sistema di norme che forte dell’esperienza di Giovanni Falcone finalmente poteva con­trapporre una certa efficacia nell’azione di contrasto. 

Venne introdotto il doppio binario pro-cedurale. Venne introdotto il 41-bis ! 

E, come sempre era successo in ragione di quella contiguità, di quella commistione di cui parlavo prima tra forze di governo e mafia, perché la mafia è sempre stata un antistato, sì, ma ha svolto più una funzione di complementarietà nell’azione di con­trollo del territorio, controllo della società civile. 

Io mi sono sempre chiesto da bambino perché Palermo diventa sempre lo sfondo per atti che non potevano accadere in nes­sun’altra parte d’Italia ? Palermo è stato il luogo in cui si sono consumate delle tra­gedie che probabilmente, nel momento stesso in cui venivano compiute, si sapeva che l’opinione pubblica, la società civile avrebbe assorbito il colpo; e dall’altro le forze di governo, in qualche modo contigue a que­sto sistema malato, avrebbero garantito quella sorta di camera di compensazione per un frazionamento della risposta legata a una logica emergenziale. E poi tutto ri­cominciava daccapo. 

La fine del sistema dei partiti introduce un elemento di aleatorietà per cui questo non è più possibile. Riina lo capisce subito, lo capisce nel 1991, quando Falcone e Vio­lante riescono, tramite Brancaccio, a sot­trarre il maxiprocesso affidandolo al colle­gio di Arnaldo Valente. Sa che il sistema ha i suoi problemi, c’è il malessere, ampi set­tori della società civile non accettano più perché stanno male economicamente, c’è uno scollamento, c’è una crescita (final­mente, dico io) della società civile rispetto a un fenomeno che ha distrutto le magni­fiche sorti progressive di questo Paese. Fi­nalmente la società civile comincia a rea­gire, il corpo elettorale ha reagito. Così come il Movimento 5 Stelle nel 2017 ha ottenuto il 30 per cento e oltre, giusta­mente. Perché il corpo elettorale in una democrazia matura, quando le cose vanno male, decide. Non necessariamente bisogna passare da chissà quali strategie eversive, politicamente eversive, solo politicamente eversive. Questo è un punto chiave. Questa analisi di contesto va fatta perché dob­biamo capire innanzitutto perché Borsel­lino in qualche modo a un certo punto, arrivato alla Superprocura... Questo è un punto fondamentale: non si può ammaz­zare Borsellino e sperare che lo Stato non reagisca. Quindi ci deve essere stato qual­cosa di talmente importante per cui Riina va sopra gli interessi dell’organizzazione e deve fermare i magistrati su indicazione, su suggerimento di terzi, deve fermare quei magistrati che possono mettere in pericolo il già morente sistema dei partiti, che pen­sava in tal modo di poter evitare l’inevita­bile. Doveva morire anche Di Pietro, non dimenticatelo. Doveva morire anche Di Pie­tro. Quindi devono morire quei magistrati che hanno a che fare con inchieste che possono portare a disvelare il sistema mar­cio dei partiti, che aveva sostanzialmente distrutto l’economia italiana. Questo Bor­sellino lo capisce. C’è un’importantissima testimonianza resa da Di Pietro nell’aprile del 1999 nell’ambito del processo Borsel-lino ter, in cui parlando con Borsellino dicono « dobbiamo trovare il sistema per fare parlare gli imprenditori ». Questo è molto importante. Di Pietro dice: « Io at­traverso gli imprenditori arrivo ai politici ». Borsellino dice: « No, in Sicilia c’è cosa nostra, gli imprenditori non è così facile farli parlare. Però dobbiamo trovare il si­stema per farli parlare ». È molto impor­tante che sia Di Pietro che Borsellino mi­rano ai politici indirettamente. Sanno che facendo parlare gli imprenditori sarebbero arrivati al sistema politico. 

Questo mi servirà nel corso dell’audi­zione, quando dovrò sostanzialmente rite­nere debole l’argomentazione secondo cui il rapporto del ROS non conteneva il nome di tutti i politici. A parte che questo poi lo potremo verificare punto per punto, ma il punto non è il politico, il politico ha avuto un ruolo fondamentale, ma devi trovare il grimaldello per arrivare al politico. Ed erano talmente convinti sia Di Pietro che Borsel­lino che il grimaldello sarebbe stato l’im­prenditore, solo che Borsellino non ha avuto il tempo di arrivarci. 

Questa lunghissima premessa era dove­rosa perché secondo me l’analisi di conte­sto va sempre fatta, altrimenti non riesco a spiegare bene l’importanza della mancata valorizzazione di quel dossier già nel feb­braio del 1991. 

Borsellino perché ritorna a Palermo ? Intanto Borsellino ritorna a Palermo, e prende possesso il primo marzo del 1992 del suo ufficio, perché è in qualche modo costretto da due necessità altrettanto va­lide. Soprattutto ricongiungersi con la fa­miglia, dopo che dall’agosto del 1986 svol­geva le proprie funzioni presso la procura come procuratore della Repubblica a Mar­sala, dove ha svolto un lavoro estrema­mente importante sul fronte sia del con­trasto alla mafia criminale, quella militare, che sul fonte del contrasto degli interessi connessi all’illecita gestione degli appalti. Questo è un punto fondamentale, tenetelo a mente: Borsellino conosce perfettamente il rapporto ROS perché, rispetto alla fase marsalese, vi sono degli elementi che, come raccontano rispetto alla riunione del 14 luglio che abbiamo scoperto esserci stata di 

recente, fanno pensare che Borsellino, avendo una profonda conoscenza del rap­porto, avendo egli fatto delle investigazioni trasferite per competenza poi a Marsala con riferimento al 416-bis, Borsellino poté sollevare, come ci dicono alcuni sostituti procuratori, delle richieste rivolte al dottor Guido Lo Forte rispetto agli esiti delle richieste di rinvio a giudizio nei confronti di Siino, Li Pera, Falletta, Morici, Cascio e Buscemi Vito. Ma lui ritorna, arriva lì sa­pendo che ha a che fare con Giammanco. Dice: « Non ho alternative », perché la legge istitutiva del novembre del 1991, convertita poi nella legge 20 gennaio 1992, istitutiva della Direzione nazionale mafia e della direzione distrettuale antimafia, lo co­stringe ad andare a Palermo perché le indagini di mafia ora vengono accorpate presso la procura del capoluogo del di­stretto di corte d’appello. Cioè Borsellino a Marsala non avrebbe potuto condurre più indagini per mafia, se voleva suo conti­nuare il suo impegno avrebbe dovuto ne­cessariamente operare da Palermo. Arriva a Palermo e il dottor Giammanco gli affida il coordinamento delle indagini sulla pro­vincia di Trapani e Agrigento, mentre il coordinamento delle indagini per la pro­vincia di Palermo viene gestita dal dottor Vittorio Aliquò. 

È interessante, perché dal verbale di queste audizioni che noi abbiamo scoperto, che sono state tenute nel cassetto per quasi trent’anni, non sono state riversate in nes­sun processo sulla strage di via D’Amelio, benché ci siamo attardati in trent’anni a ricostruire minuziosamente anche i respiri del dottor Borsellino in quei 57 giorni, in questi verbali in cui finalmente abbiamo anche le sue confidenze a magistrati, il suo dolore, i suoi sfoghi, questi verbali non ci sono stati messi a disposizione. 

Ecco come li ho scoperti, ne ho trovato traccia nella richiesta di archiviazione della dottoressa Gilda Loforti, con riferimento a una dichiarazione frutto di un cattivo ri­cordo del dottor Pignatone, con riferimento alla riunione dell’8-10 luglio in cui Borsel­lino sarebbe stato informato dell’archivia­zione. 

Ebbene, a pagina 79 di quel verbale che finalmente siamo riusciti a trovare, il dot­tor Pignatone dichiara che in quella riu­nione, svoltasi tra l’8 e il 10 luglio, si parlò delle archiviazioni e il dottor Borsellino quindi ne era al corrente. Piccolo partico­lare, il dottor Borsellino dal 6 al 9 si trovava a Francoforte a Mannheim e poi risiede a Roma fino al 12 luglio. Questo emerge dalla sua agenda grigia ed emerge come inconfutabilmente e oggettivamente accertato nell’ambito dei processi sulla strage di via D’Amelio. Quindi il dottor Pignatone ricorda male, Borsellino alla riunione o dell’8 o del 10 luglio non ci poteva essere perché era in Germania e il 10 era a Roma. 

Noi scopriamo questi verbali, li otte­niamo e troviamo uno scrigno segreto at­traverso cui decifrare finalmente tutta una serie di dati che ci erano stati consegnati come dati acquisiti, cioè si era detto che il procuratore Giammanco ha osteggiato Bor­sellino con riferimento alla delega per la gestione di Gaspare Mutolo. Bene, tutti hanno detto questo. 

All’interno di quei verbali trovate la specificazione di ogni singolo passaggio, del dispiacere, dell’amarezza, dell’umiliazione del dottor Borsellino che deve chiedere, lui che aveva fatto il maxiprocesso, una sorta di aiuto a due giovani, cioè Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli, di intercedere presso il capo perché lui ottenga finalmente la titolarità di un fascicolo, atteso che Ga­spare Mutolo aveva chiesto di parlare con lui. Vi renderete conto che per noi è stato un colpo. Cioè, nelle sentenze si dice: « Va be', l’ha osteggiato, di qua e di là », poi vado a leggere i verbali e c’è tutta la descrizione. C’è la descrizione, eh beh, ha telefonato Guido Lo Forte, ha telefonato Gioacchino Natoli, « Paolo, stai tranquillo, la delega l’avrai ! ». Ma stiamo parlando di Paolo Borsellino, uno che aveva fatto il maxipro­cesso e che in un Paese diverso avrebbero dovuto... No, arriva lì e gli si dice: « No, tu hai bisogno dell’intercessione di Lo Forte o di Gioacchino Natoli per ottenere la de­lega » ! Su questo io poi mi attarderò un poco perché è molto importante per capire l’umiliazione e l’amarezza di quell’uomo. E qui, mi dispiace, io non voglio apparire animato da chissà quale livore. Non è così, credetemi, è doloroso. E non c’è sovrastrut­tura esplicativa che tiene rispetto a delle dinamiche che avvengono all’interno di un ufficio di procura, che è il presidio della legalità. Noi possiamo tutti quanti guardare alle cointeressenze, guardare tutte le rico­struzioni possibile, ognuna legittima, basta solcarla. Ma la realtà dei fatti è che Bor­sellino l’inferno lo ha vissuto nel suo uffi­cio ! E questo va detto agli italiani. Gli italiani devono sapere. 

E, ripeto, la cosa più grave è che al dottor Giammanco è stato dato il commo­dus discessus. Il dottor Giammanco è l’u­nico magistrato che è stato costretto alle dimissioni per una lettera, firmata anche dal qui presente senatore Scarpinato, con cui in poche parole lo si costringeva alle dimissioni per la sua totale impossibilità di restare in quell’ufficio. 

Ebbene, il dottor Giammanco non è mai stato audito da un sostituto procuratore della Repubblica della procura di Tinebra per dire: « Scusami, cosa è successo ? Per­ché i tuoi sostituti ti hanno mandato via ? E soprattutto ci spieghi la telefonata del 19 luglio del 1992 alle sette e un quarto ? » Atteso che dimostrerò che quella telefonata non riguardava la delega a Mutolo, che viene finalmente concessa il 18, sabato, al dottor Borsellino, ma riguardava final­mente la delega su tutte le indagini del comparto palermitano, donde finalmente potere dare sfogo al piano investigativo volto a vivificare le inchieste di Mafia­Appalti di cui all’incontro, da vero e pro­prio carbonaro, alla caserma Carini del 25 giugno del 1992 con il colonnello Mori e con il capitano De Donno. 

La signora Agnese Borsellino, il 25 marzo del 1993, dichiara dinanzi a una corte d’assise: « Mio marito riceve questa telefo­nata, i rapporti col dottor Giammanco erano pessimi. La telefonata ha il seguente te­nore: non ho dormito tutta la notte, da domani puoi avere le indagini su Palermo così la partita è chiusa ». Paolo Borsellino chiude il telefono e dice alla moglie: « La partita è aperta e comincia a passeggiare nervosamente per il corridoio di casa ». 

Tenete a mente questa circostanza, per­ché io plausibilmente riuscirò, attraverso il contenuto delle audizioni del CSM del 1992, a dimostrarvi che il dottor Borsellino (per carità, non è una verità, io non porto verità, porto elementi su cui poi ognuno farà le sue valutazioni, io vi porto elementi, dopo­diché ognuno farà le sue valutazioni) ha dunque la delega su Palermo la mattina dello stesso giorno in cui viene ucciso. Come ho dichiarato in un’unica trasmis­sione giornalistica, perché io tendo a fug­gire le dichiarazioni giornalistiche per un motivo molto semplice: quando le vicende sono complesse come queste ci vuole una consequenzialità giusta o sbagliata tra an­tecedente, tra presupposti, svolgimento e conclusioni, un’intervista giornalistica non potrà mai consentire di spiegare così com­piutamente questa vicenda. 

Il dottor Borsellino molto probabil­mente ha appreso sul conto del procura­tore Giammanco delle notizie così terribili che lo portano a interrompere il flusso delle comunicazioni, quindi a venir meno un pochino a quel principio importantis­simo in una procura, per cui il procuratore aggiunto deve parlare con il suo procura­tore capo, e di questo devo dire che il dottor Borsellino ne ha parlato col sena­tore Scarpinato, ne ha parlato con Vittorio Teresi e ne ha parlato con Antonio Ingroia. Quindi tre magistrati di quella procura sapevano che con riferimento a un’inda­gine specifica, che collegava l’omicidio Lima alla strage Falcone, Borsellino aveva rife­rito ad alcuni suoi colleghi che avrebbe gradito in qualche modo, partendo dall’o­micidio Guazzelli, che alcune informazioni non arrivassero al procuratore capo. Ed effettivamente il senatore Scarpinato, nel corso della sua audizione del luglio del 1992, dice una cosa che è giusta, perché si trattava di Paolo Borsellino. Ma una cosa del genere non sta in piedi, io non posso stare in una procura – dice – in cui so­stanzialmente esistono due procure, sono l’uno contro l’altro armato però bisogna vedere chi ha attaccato e chi ha dovuto difendersi in questa contesa, e chi si è difeso se si è difeso per salvare se stesso da un pericolo imminente e grave che comun-que non è riuscito a evitare e quindi in pieno stato di necessità. Quello che rimane da questa descrizione cos’è ? Possiamo uti­lizzare tutte le sovrastrutture descrittive del contesto che ha prodotto. Ma, come diceva Manzoni nel capitolo decimo: « La conversa non dovevate cercarla in Olanda, a Meda, ma dentro le mura del mona­stero ». Con questo voglio dire che dentro le mura del monastero vanno cercate le con­dizioni per la delegittimazione, capiamoci, per creare quelle condizioni che poi pos­sano consentire ad altri di eseguire la strage. 

Paolo Borsellino è un uomo solo, un uomo avversato, un uomo che è costretto a comunicare come un carbonaro. E, vi as­sicuro, questo non faceva parte del suo bagaglio di conoscenze. Tant’è vero che quando arriva alla procura dice a Ingroia: « Io so che Giammanco mi osteggerà, ma non ho alternative e poi io mi guadagnerò il mio spazio a poco a poco. Non metterò in atto la strategia di Giovanni Falcone che ha impattato il Giammanco ». Anche se Gio­vanni Falcone lo vedremo analizzando le singole annotazioni del suo diario. Gio­vanni Falcone aveva motivi, è stato umi­liato grandemente da Giammanco davanti a giovani sostituti pure dell’ordinaria. 

Allora qui possiamo utilizzare tutte le sovrastrutture ideologiche di grandi si­stemi, ma la sofferenza più grande è arri­vata anche lì dentro. Allora andiamolo a cercare se Giammanco agiva in nome e per conto di qualcuno. Ma non è più possibile perché Giammanco è morto. Giammanco ha avuto il commodus discessus sotto ogni profilo. È stato sentito per la prima volta nel 2017 ma, poverino, non era più in grado perché non stava bene. Io ho ancora davanti a me la dolorosa immagine del procuratore Tinebra, sentito al « Borsellino quater », che non stava bene, stava malis­simo. Potevamo acquisire le dichiarazioni rese nel corso delle indagini ed evitare quella drammatica istruzione dibattimen­tale con la presenza di un uomo che tutti ricordavamo nel pieno dell’esercizio delle sue funzioni, su cui poi magari ne parliamo perché il depistaggio nasce anche lì. 

Allora di questo dobbiamo parlare an­che agli italiani, del nido di vipere. Io ci tengo particolarmente, perché queste cose non accadano mai più. 

Io dico che anche l’istituzione magistra­tuale deve essere pronta, oltre a tutti gli altri ambiti dello Stato, a guardare dentro di sé e a quello che ha combinato in quel frangente della storia repubblicana. 

Tutti dicono che Borsellino, morto Fal­cone, sarebbe andato a fare il Procuratore nazionale antimafia, ma nessuno sa che il plenum del CSM, tra il 15 e il 20 giugno del 1992, bloccò qualunque richiesta di ria­prire i termini del concorso, disse che Bor­sellino non aveva titoli e che non avrebbe sopportato l’ingerenza del potere esecutivo rispetto a un concorso che era già sotto delibazione o quasi definito. 

Il CSM, quando ci sono di mezzo Fal­cone e Borsellino, è stato velocissimo, pronto, sempre. Sempre pronto. 

Io non ho visto in questi anni la magi­stratura ragionare su come ha in qualche modo cannibalizzato i suoi figli migliori. Non ho mai sentito un mea culpa. « Ab­biamo sbagliato, cosa abbiamo combinato, non abbiamo capito niente ». Niente di tutto questo. 

Quindi Borsellino, dicevo, ha Trapani e Agrigento, non si lamenta e dice: « Va be', mi conquisterò i miei spazi ». 

Succede che muore Lima, come ho detto lui arriva il primo è Lima viene ammazzato il 12. Allora anche lui viene coinvolto con tutti i procuratori aggiunti in quelle che sono le indagini immediate che conseguono a un omicidio di quel tipo. Borsellino però fa delle proposte e il paventato clima di ostilità, che lui aveva confidenzialmente detto a Antonio Ingroia, si esprime in un’as­soluta non considerazione della sua richie­sta di una rogatoria negli Stati Uniti per interrogare don Masino Buscetta, per ca­pire quali erano le evoluzioni legate a que­sto omicidio. 

Ricordo come se fosse ieri l’immagine preoccupata di Giovanni Falcone (intervi­stato non mi ricordo da chi, ma su YouTube si trova) che dice preoccupatissimo: « Da questo momento può succedere di tutto ». Falcone e Borsellino erano talmente in grado di decifrare la realtà, che in quel-l’intervista Falcone è veramente rabbuiato, sa che sta arrivando lo tsunami. 

Si lamenta anche Borsellino della ina­deguatezza delle indagini patrimoniali, in particolare sul patrimonio mobiliare di Lima, dicendo che non poteva essere quello il patrimonio in termini di depositi dell’ono­revole Lima. 

L’intuizione di Paolo Borsellino relati­vamente all’inadeguatezza delle indagini illo tempore fatte su Lima riecheggerà nella famosa testimonianza di Antonio Di Pietro nel processo Borsellino ter, che poi è stata ribadita anche nel processo Trattativa, in cui dice che lui riuscì a trovare nel novem­bre 1993, in BOT e CCT, 500 milioni che arrivavano da Cirino Pomicino a Lima. Vedremo, parlando di Mafia-Appalti, la cen­tralità che aveva Lima nel sistema. 

Le cose cambiano per Borsellino con la strage di Capaci, a quel punto quelle com­petenze cominciano a stargli strette. Perché è colpito sul piano professionale, è colpito sul piano umano e soprattutto – ecco il punto – egli è convinto che Falcone muore, e ce lo dirà il 25 di giugno a Casa Professa, perché non si voleva che ritornasse a fare il magistrato a fare le indagini che voleva fare. 

Vi assicuro che il chiodo fisso di Fal­cone, e questo risulta, era Mafia-Appalti. E su questa linea di continuità si pone anche Paolo Borsellino. Tanto ciò è vero che in­dagando su un fatto di sua competenza, che è l’omicidio del maresciallo Guazzelli (fatto avvenuto ad Agrigento, quindi non c’era il problema di dovere in qualche modo chiedere la titolarità del fascicolo, era lui che aveva quella provincia e quindi poteva indagare), man mano che indaga e man mano che acquisisce alcune informa­zioni (ve lo spiegherò nel corso di questa relazione) da Catania da una parte, dall’al­tra certe informazioni che gli vengono ras­segnate dai ROS, apprende di una circo­stanza che rivelerà soltanto ai dottori Scar­pinato, Ingroia e Teresi. Cioè che Siino Angelo e Cascio Rosario si erano recati dal maresciallo Guazzelli per ottenere in qual­che modo un trattamento di favore rispetto alle indagini di Mafia-Appalti. La cosa in­credibile è che l’episodio viene collocato ovviamente in un’epoca precedente l’arre­sto del Siino, che avviene il 9 luglio del 1991. Il rapporto viene depositato il 20, quindi questo episodio si inserisce tra il 20 febbraio e il 9 luglio del 1991. E come faceva Siino a conoscere che vi era la necessità che la sua posizione all’interno del rapporto venisse in qualche modo am­morbidita ? Il rapporto doveva essere se­greto. È un’annotazione, è una comunica­zione notizia di reato. Perché lui prende l’iniziativa di andare dal maresciallo Guaz­zelli insieme a un altro soggetto di un certo spessore, come Cascio Rosario, per cercare di corrompere il sottufficiale di polizia giu­diziaria ? Ci dice Borsellino, probabilmente appreso dai compagni di caserma del Guaz­zelli, che la reazione di Guazzelli fu tal­mente furiosa rispetto a questo tentativo di corruzione che, uscito da quell’incontro, il Siino si sentì male, molto male, gli venne da vomitare eccetera, e che quindi si rivolse all’onorevole Lima per cercare di ottenere lì la protezione che gli era stata negata da Guazzelli. Ma la cosa assurda è che tutto questo Borsellino lo racconta senza sapere quello che succederà dopo, quando lui è morto. O forse lo sapeva, suppongo che lo sapesse questo punto. Perché Li Pera, quando comincia a parlare a Catania con Felice Lima, la prima cosa che racconta è: « Guardate che noi sapevamo più o meno tutto il contenuto del rapporto Mafia­Appalti », quindi il rapporto fu oggetto di una illecita divulgazione. Su questo c’è stato un procedimento che poi si è definito con un’archiviazione, però resta la circostanza di fatto che gli indagati del rapporto Mafia­Appalti fossero a conoscenza delle risul­tanze compendiate nel relativo rapporto. Allora, dicono Teresi e Ingroia nei verbali della commissione del 1992: « Dato che noi non avevamo mai avuto prima di un anno fa, noi non sapevamo niente di tutto que­sto. Niente ! » 

Borsellino ci dice: « Fatemi una cortesia, per me questa cosa va a Lima, Lima viene ammazzato perché non riesce a garantire attraverso D’Acquisto su Giammanco la copertura su Mafia-Appalti ». 

Tant’è che il dottor Vittorio Teresi, one­stamente, nel dicembre del 1992, nel rac-contare questo episodio a Cardella... che poi è finito nel dimenticatoio, forse è sfug­gito a me, però anche lì il dottor Teresi non è stato chiaro e preciso come invece nei verbali. Dice: « No, Paolo Borsellino pen­sava che Lima fosse stato ammazzato per­ché in realtà non era in grado di garantire l’associazione rispetto allo sviluppo delle indagini su Mafia-Appalti ». 

Quindi accanto al mancato aggiusta­mento del processo, accanto al mancato aggiustamento dell’inchiesta Mafia-Appalti, vi era un motivo più che evidente agli occhi dell’organizzazione per far fuori un amico che non era più in grado di svolgere il proprio ruolo. Ma queste sono intuizioni del dottor Borsellino, io non voglio dire che è questa la verità. Io voglio dire che Paolo Borsellino aveva delle ipotesi. Queste ipo­tesi poi effettivamente rimandano sempre là, sempre a questo benedetto rapporto del ROS. Incompleto, imperfetto, quello che volete, ma Paolo Borsellino è convinto che lì vi sia una delle chiavi, se non la chiave, di spiegazione della strategia criminale in corso. Questo va detto. 

Non si può dire, come ho letto in una sentenza, che è logico ritenere che Paolo Borsellino non conoscesse il rapporto Mafia­Appalti. È un falso storico. È un falso. Lo trovate in tutti i verbali della commissione del CSM come atti più recenti, ma lo tro­vate anche nelle sentenze che vi ho citato, lo trovate in « Mandanti Occulti bis », la richiesta di archiviazione del 2003. 

Nel frattempo succede che nel '97-98 si pentono Angelo Siino e Giovanni Brusca, nel 1996 si pente Brusca ma comincia a essere creduto dal 1998 in poi. 


Quello che descrivono Siino e Brusca è: « Noi temevamo che Borsellino si ponesse sullo stesso livello di Falcone e potesse in qualche modo scoprire il nostro disegno egemonico, che era quello di arrivare al potere sedendoci a tavolino e soprattutto contando finalmente qualcosa in seno ai gruppi politici imprenditoriali di rilevanza nazionale e ai grandi politici. Vogliamo arrivare a Roma ». 

Se ci pensate questo è molto in linea con la descrizione del contesto che io vi ho fatto. Perché nel momento in cui il sistema partitocratico crolla avviene qualcosa che si può chiamare la delocalizzazione, cioè il controllo del territorio diventa sì impor­tante, ma visto che la società civile conti­nua ad avanzare nel progresso culturale di contrasto, io so che a livello locale control­lerò sempre meno società civile e quindi quello che conta è entrare nel sistema della combine dei grandi affaristi e da lì muovere le vere leve del potere, che sono quelle finanziarie che poi raggiungono anche quello politico. In nuce, tutto questo è perfetta­mente delineato nel rapporto del ROS del 1991. 

Si vedono imprenditori che con un’a­zione di lobbismo spregiudicato raggiun­gono Roma, ottengono i finanziamenti ri­spetto all’ente appaltante, l’ente appaltante appalta opere che non hanno alcun riferi­mento all’interesse della collettività e, at­traverso il meccanismo della perizia di va­riante, si creano le provviste per tangenti, corruzione e tutto quello che volete. 

C’è un’intercettazione nell’informativa Si­rap, che viene consegnata nell’informativa Sirap ma le cui trascrizioni erano già nel rapporto del 1991, in cui Mimì La Cavera (che era il consigliere di amministrazione della Sirap, uno degli enti appaltanti) par­lando con il Ciaravino (che era forse l’am­ministratore delegato, poi vi spiego cos’è la Sirap, sto andando a braccio perché vorrei cercare di rendere meno noiosa la mia esposizione), c’è un’intercettazione in cui La Cavera dice a Ciaravino (fidatevi della mia memoria) parolacce a non finire, di­cendo: « Io ho bisogno di 100 mila lire al giorno perché ho i miei lussi e i miei vizi, e n’anticchia a Lima, n’anticchia a Lom­bardo, n’anticchia a chistu, n’anticchia a quello », cioè viene fondamentalmente de­lineato un sistema per cui la stazione ap­paltante è totalmente in associazione a delinquere con i politici e con gli impren­ditori. E poi c’è la mafia, ma la mafia si inserisce dopo rispetto a un sistema che è già bello che oleato da anni. È il progetto egemonico di Riina che cambia le carte in tavola, perché la vecchia mafia si accon­tentava di quella dimensione parassitaria o lavori per conto terzi. Riina, nella sua volontà egemonica, ambisce a sedersi al tavolino, che è cosa molto diversa. È cosa molto diversa. Da qui allora le famose cointeressenze con le imprese della Sera­fino Ferruzzi, il ruolo dei fratelli Buscemi, Salvatore, capomandamento del Passo di Rigano, Nino Buscemi, Lipari Giuseppe, che nell’archiviazione del 13 luglio del 1992 vengono liquidati con tre parole tre parole.. 

Io non potrò mai credere (questa è una mia deduzione, siamo in ambito storico e lo posso fare) che Paolo Borsellino, che aveva fatto il maxi processo, aveva quindi in qualche modo conosciuto le dinamiche sot­tostanti la guerra di mafia e il ruolo di Salvatore Buscemi nel favorire la scalata rispetto al mandamento di Passo di Rigano ai danni degli Inzerillo, avesse potuto mai e poi mai, sulla scorta delle risultanze contenute nel rapporto del febbraio del 1991, accettare un’archiviazione rispetto – attenzione – alla partecipazione all’asso­ciazione mafiosa del Lino Buscemi e del Lipari Giuseppe. Siino si incontrava costan­temente in viale Croce Rossa, laddove esi­stevano le società di Provenzano. I carabi­nieri danno conto di un’attività di osserva­zione e di pedinamento costante di un Angelo Siino che è costretto a interloquire con Lipari Giuseppe, con Gariffo che era il nipote di Provenzano Bernardo. Quindi ve­dere sostanzialmente liquidata in due pa­role la posizione di Buscemi Antonino e di Lipari, e su Buscemi dovrò sostanzialmente dare conto di un’altra importante archivia­zione, accompagnata però da un’anomalia: io faccio l’avvocato da trent’anni e non ho mai visto che vengano smagnetizzati e so­prattutto distrutti dei brogliacci. 

Guardate, noi siamo riusciti finalmente a venire a capo del depistaggio di via D’A­melio perché grazie ai brogliacci delle in­tercettazioni in quel di San Bartolomeo a Mare del dicembre 1994-95, recuperate nel 2019, siamo riusciti in qualche modo a meglio configurare le condotte di uno degli imputati. Distruggere i brogliacci di inter­cettazioni nell’ambito di un procedimento proveniente da Massa Carrara, in cui un sostituto procuratore della Repubblica di nome Augusto Lama era riuscito a dimo­strare le cointeressenze dirette tra società del gruppo Ferruzzi e della famiglia Bu-scemi, soprattutto di Salvatore e Nino Bu­scemi, Bonura, tutti soggetti appartenenti al mandamento di Passo di Rigano. E so­prattutto, ricordiamolo, quando Borsellino avrebbe assentito, secondo alcune versioni, all’archiviazione, Salvatore Buscemi è de­finitivo da poco come condannato nel ma­xiprocesso. Salvatore Buscemi sarà poi nel Borsellino ter condannato all’ergastolo come mandante della strage di via D’Amelio. Per­ché distruggere e smagnetizzare le inter­cettazioni del fascicolo di Massa Carrara ? La richiesta di archiviazione è dell’1 giugno 1992, il 19 giugno il dottor Grillo accoglie la richiesta e il 25 giugno il dottor Grillo accoglie la richiesta di distruzione dei bro­gliacci. Scritto a penna. Cioè, si ordina visto il potere del pubblico ministero. 

Chiedete a qualunque sostituto procu­ratore della Repubblica di questo paese per indagini di mafia quando e come, a di­stanza di un anno, si dispone la distruzione di brogliacci. Tanto ciò è vero che Paolo Borsellino di questa distruzione avrebbe chiesto conto se non fosse stato trucidato, giacché il 30 giugno o il primo luglio del 1992 Leonardo Messina gli riferisce che la Calcestruzzi S.p.A. è in mano a Salvatore Riina. Quindi Paolo Borsellino immagino che avrebbe chiesto il fascicolo per colle­gamento 371 c.p.p. proveniente da Massa Carrara (il 35/91, poi vi do i numeri esatti). Dice: « Abbiamo distrutto i brogliacci e abbiamo smagnetizzato le intercettazioni », quando Leonardo Messina gli dice: « La Calcestruzzi è di Salvatore Riina ». 

Questa è dal nostro punto di vista una gravissima anomalia. 

Quando, nel corso del processo di Avez­zano per la querela a carico di Sansonetti e Aliprandi, abbiamo chiesto ai magistrati querelanti in un processo e nell’altro come testimoni, siccome sostenevo che c’era una circolarità in seno alla procura di tutte le informazioni riguardanti questi fascicoli, alla fine entrambi gli interrogati hanno detto di non avere alcuna notizia del fatto che c’era un procedimento che era stato trasmesso il 26 agosto dal dottor Augusto Lama. (Poi se volete vi spiego fondamen­talmente l’importanza di questo procedi­mento.) E hanno detto che non sapevano niente. Allora qual è la circolarità, dov’è la circolarità ? Come vedete, dunque, vi sono troppi elementi che fanno pensare che in qualche modo il dottor Borsellino su quelle carte non ci doveva mettere le mani. Troppi elementi. Perché il dottor Borsellino è co­stretto a incontrare il capitano De Donno e il colonnello Mori, che conosce un po' meglio per la prima volta proprio in quel­l’occasione, lo conosceva di vista, era molto più amico del generale Subranni. Subranni che il 19 giugno del 1992, visto quanto è risultato, grazie al maresciallo Lombardo tra l’altro, riesce ad attingere a delle notizie importanti, circa il fatto che era arrivato il tritolo per Paolo Borsellino. 

All’interno di questa informativa il ge­nerale Subranni individua dei soggetti a rischio, vi sono due carabinieri, uno credo fosse il maresciallo Canale se non ricordo male, poi c’era l’onorevole ministro Salvo Andò, allora ministro della difesa, e poi Paolo Borsellino. 

L’informativa è interessante perché il generale Subranni dice: « Trasmetto a lei, procuratore della Repubblica dottor Giam­manco, tale informativa attinta da fonti carcerarie, secondo cui è arrivato il tritolo per Paolo Borsellino, perché lei, quale re­sponsabile, attivi quello che deve attivare per un rafforzamento della tutela, quello che volete insomma ». 

Giammanco non dice nulla a Borsellino. È pazzesco. Se ci pensate un attimo, è pazzesco. E nessuno ha mai chiamato il dottor Giammanco per dire: « Perché non hai avvisato Paolo Borsellino ? » 

Borsellino come lo sa ? Lo sapete tutti, il famoso incontro del 28 giugno del 1992 a Fiumicino, in cui incontra la dottoressa Ferraro, un incontro con la dottoressa Fer­raro in qualche modo concertato, perché lui veniva da Giovinazzo dove aveva parte­cipato insieme alla consorte a un convegno di Magistratura indipendente. Incontra l’o­norevole Andò. Poi non mi fate dimenti­care il contenuto del colloquio con la dot­toressa Ferraro, perché è estremamente importante. L’onorevole Andò incontra Bor­sellino e gli fa: « Dottore, mi scusi, cosa pensa, c’è da preoccuparsi ? » « Ma di cosa ? » « Come di cosa ? Guardi, dall’ufficio del Ministero hanno avuto l’informativa di Su­branni che indicava me come possibile obiet­tivo di un attentato e io ho avuto rafforzata la scorta, il livello delle misure di sicurezza nei miei confronti si è notevolmente innal­zato ». Paolo Borsellino trasalì. Ma la cosa assurda – come mi disse mia figlia oggi prima venire: « Papà, non mollare perché la nonna è morta di dolore » – è che questa cosa Andò gliela dice di fronte alla consorte Agnese Borsellino, la quale ovviamente co­mincia a temere per loro, comincia a te­mere per tutti, perché fino al giorno prima imprudentemente erano saliti in macchina anche loro. 

Borsellino: « Perfetto, vedi che bel pro­curatore che ho. Amico di D’Acquisto, amico di Lima ». 

Tant’è che il dottor Scarpinato, il sena­tore Scarpinato oggi, nel verbale racconta che fece di tutto (giustamente dico io) per impedire che il procuratore capo della Re­pubblica di Palermo andasse ai funerali di Lima, quando a Palermo anche le pietre sapevano chi fosse Lima, chi fosse Cianci­mino. 

E giustamente il dottor Scarpinato con­vinse, ma non doveva neanche sorgere il problema dico io, il procuratore Giam­manco a non presentarsi ai funerali di Lima, perché questo avrebbe significato disdoro totale nei confronti della credibi­lità di un intero ufficio. 

Cosa fa Borsellino ovviamente ? Ap­prende questa informazione e l’indomani, sappiamo dai processi, chiede conto e ra­gione di questa gestione burocratica as­surda, imperdonabile, umanamente non de­finibile, secondo me, del dottor Giam­manco. Cosa fa ? Dice: « Io ho il diritto di sapere se io o la mia famiglia siamo in pericolo ».« Ma mi sono limitato a trasmet­tere ex articolo 11 c.p.p. all’autorità com­petente ».Dio santo, c’era stata la strage di Capaci insomma, tutti additavano Borsel­lino come possibile vittima, come il conti­nuatore dell’opera di Giovanni Falcone. E tu lo gestisci così ? Nessuno ha chiesto conto e ragione di questo a Giammanco. Nessuno in magistratura, i sostituti procu­ratori di allora hanno ritenuto di interro­garlo su questo. Non c’è un verbale in ben 19 sentenze, in 19 dibattimenti durati anni – anni ! – in cui un magistrato della pro­cura chieda conto e ragione di questo a Giammanco. Non è normale. Non è nor­male. Lo capiamo tutti qua dentro. 

Attraverso i verbali del CSM abbiamo scoperto una cosa che non era mai apparsa nell’ambito delle 19 istruzioni dibattimen­tali fino adesso celebrate per la strage di via D’Amelio. Cioè che il 29 giugno del 1992 Paolo Borsellino andò da Giammanco an­che per chiarire una cosa altrettanto im­portante, che rappresenta anch’essa la ma­terializzazione di quello ostracismo irra­zionale, illogico, funzionale alla sua umi­liazione e delegittimazione professionale. Cos’era successo ? Mentre Paolo Borsellino si trovava a Giovinazzo arriva un fax dalla procura della Repubblica di Firenze del dottor Vigna, con cui si dice: « Gaspare Mutolo ha parlato con me per fatti legati a un traffico di stupefacenti avvenuto nel mio territorio, ora ha deciso di saltare il fosso e di cominciare a parlare ». Unica condi­zione che ha posto è quella che, visto che inizialmente voleva essere interrotto da Fal­cone, ma Falcone in vita era al Ministero e non poteva più svolgere le funzioni di pub­blico ministero, muore Falcone, ovvia­mente salta il fosso e con chi vuole parlare secondo voi ? Con Paolo Borsellino. E ce lo dice Teresa Principato. Teresa Principato, nel suo verbale della commissione del 1992, dice: « Certo che voleva parlare con Paolo Borsellino. Con chi doveva parlare ? Con Giammanco ? » 

Paolo era credibile. I pentiti non ci sono stati in questi anni perché questa procura è gestita da un capo che non è credibile. Paolo è credibile, è ovvio che quello si sceglie il pentito. Non dico io da avvocato che è una prassi sostanzialmente giusta, ha ragione in termini astratti il procuratore Giammanco a dire: « Non deve essere il collaboratore a scegliersi il magistrato ». Ma in condizioni normali, perché in con­dizioni diverse dove tu hai fatto di tutto per rendere la vita impossibile a Paolo Borsel­lino e in cui hai umiliato precedentemente Giovanni Falcone, la tua non è un’obie­zione astrattamente e intellettualmente one­sta. È un modo per impedire all’ex autista di Saro Riccobono, come ci dice Leonardo Guarnotta nel dicembre del 1998 nel pro­cesso Borsellino ter, di disvelare i legami con il sistema politico della vecchia mafia perdente. Tu vuoi impedire a Paolo Borsel­lino di gestire i frutti di una collaborazione di un grosso collaboratore di giustizia. In astratto, in astratto. La verità è che tu vuoi impedire a Paolo Borsellino di gestire quel collaboratore e ti inventi una formula per cui (questo è un passaggio fondamentale in cui spero di essere io in grado di dare la giusta interpretazione dei fatti così come si sono svolti) l’ostacolo per l’attribuzione della titolarità del fascicolo a Paolo Borsellino della gestione di Gaspare Mutolo viene in­dividuata pretestuosamente senza tema di essere smentito. Viene individuata prete­stuosamente da Giammanco nel fatto che il collaboratore parlerà di fatti di compe­tenza del comparto palermitano E lui è invece coordinatore delle indagini su Tra­pani ed Agrigento. 

In una dinamica normale ci può anche stare, ma hanno appena ammazzato Lima, Guazzelli, hanno sventrato un’autostrada per uccidere la prima delle Torri gemelle di questo Paese, e cavillare richiamando que­stioni amministrative di organizzazione in­terna all’ufficio ritengo sia un fatto vera­mente altamente pretestuoso. 

Cosa succede ? Succede che il dottor Gioacchino Natoli, quando il dottor Bor­sellino si presenta la mattina del 29 in ufficio molto arrabbiato per l’informazione avuta dal Ministro andò con riferimento alla mancata informazione dell’informativa di Subranni sull’arrivo del tritolo, Gioac­chino Natoli dice: « Senti Paolo, io ti devo dire una cosa, in deroga al meccanismo delle competenze io sono a Trapani con te, però Giammanco mi ha affidato la titola­rità del fascicolo su Mutolo ». Gioacchino Natoli lo fa per dire: « Attenzione Paolo, io non c’entro niente, mi trovo a subire le bizze di una scelta del capo che individua in me, ma io Paolo non c’entro niente, non ti venga in testa di pensare che sono stato io ». E Paolo dice: « Ma ci mancherebbe ». Va nella porta accanto, che è quella del procuratore Aliquò, effettivamente il fasci­colo porta l’assegnazione di Vittorio Aliquò, dottor Guido Lo Forte e dottor Gioacchino Natoli. Il dottor Borsellino prende questo fascicolo e va da Giammanco. Quindi sco­priamo per la prima volta, attraverso la lettura dei verbali del 1992, che le questioni affrontate quella volta non erano, come abbiamo sempre creduto, una, ma due. Non c’è solo l’informativa omessa, ma an­che l’attribuzione, venendo meno al crite­rio pretestuoso che egli stesso si era dato per impedire a Borsellino di prendere quel fascicolo, l’attribuzione a un magistrato com­petente su Trapani dello stesso fascicolo che reclamava Borsellino, non fosse altro perché lo chiedeva anche lo stesso collabo­ratore e quindi lo si sarebbe messo nelle condizioni forse di essere più tranquillo nell’esposizione dei fatti. Dell’incontro tra Giammanco e Borsellino fino adesso sape­vamo una cosa. Poi facciamo una pausa, vi leggo questa piccola parte perché è impor­tante. Scusate, perché siamo stanchi, io mi sono permesso in maniera del tutto... 

PRESIDENTE. Non c’è problema, prego. 

FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Man­fredi e Fiammetta Borsellino. Siccome ve­devo che c’era un po' di stanchezza, io posso andare fino a domani mattina, que­sto sia chiaro. 

PRESIDENTE. Avvocato, come ho detto all’inizio, lei finisca questa parte di rico­struzione, poi sospendiamo e riprendiamo in altra seduta. 

FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Man­fredi e Fiammetta Borsellino. Allora dico solo questo particolare perché è molto im­portante. Noi sappiamo da Agnese Borsel­lino che il dottor Borsellino fu talmente duro nel confronto con il dottor Giam­manco che sbatté il pugno sulla scrivania e si fece male. Questo era l’unico resoconto che noi avevamo della giornata del 29. Senonché, grazie alla dottoressa Enza Sa­batino, riusciamo finalmente ad avere il racconto di come Paolo Borsellino visse quell’incontro. È un racconto che vera­mente... Poi si dice perché i figli a volte devono stare lontano dalle carte. È facile, è facile quando si tratta di altri. Qui c’è un padre, c’è un giudice che ha dimostrato di non tenere famiglia. Un puro, un uomo attorno al quale tutti dovremo trovare la forza di ricreare uno spirito di identità nazionale. Paolo Borsellino ha condotto una via crucis e non ha pensato al « tengo famiglia ». No, no. È andato fino in fondo al suo sacrificio, nonostante tutto. E se l’Italia a mio giudizio non decide di affrontare essa stessa questo dolore immenso, tutte le componenti istituzionali devono avere il coraggio di guardare a questa tragedia con l’onestà, il senso del perdono da invocare da noi e dagli italiani onesti, che sono la maggior parte. È andato incontro al suo sacrificio senza avere il pensiero « tengo famiglia ». Ha messo il Paese al di sopra di tutto. Quanti oggi hanno questo approccio ? Noi ce l’abbiamo lo sapete perché ? Ab­biamo perso tutto. Abbiamo la felicità, di­ceva un cantautore che sono sicuro pochi conoscono, Franco Fanigliulo. Noi abbiamo la felicità di avere perso tutto, non solo il congiunto ma anche la verità. Chi più di noi ha attraversato questo dolore e nono­stante tutto abbiamo sempre avuto e avremo fino alla fine dei nostri giorni il rispetto per tutte le istituzioni ? 

È giunto il momento che attorno a Paolo Borsellino non ci siano divisioni. 

Quello che ci ha offeso più di tutto in questi anni, la cosa che ci ha devastati è pensare che la sua famiglia nucleare non sia stata lì a implorare la verità. Non è così. 

Quindi cosa succede ? La Sabatino ci parla della telefonata che fanno con Bor­sellino il 29, di sera, di giugno. Perché si fanno questa telefonata ? Perché la Saba­tino era passata in ufficio perché doveva parlare con Borsellino, ma Borsellino quel giorno era iperoccupato e quindi si sentono poi la sera. È lo stesso dottor Borsellino che chiama la Sabatino. Le giudici Saba­tino erano due, la dottoressa Vincenza Sa­batino e poi c’era anche la sorella. Sentite cosa dice, me la dovete consentire questa lettura, la trovate ovviamente tra le audi­zioni della dottoressa Sabatino rese al CSM il 30 luglio del 1992.« Un’altra cosa vorrei ricordare » – è la Sabatino che parla – « perché mi impressionò pure. Era un giorno della fine di giugno e la mattina, nel corso della mattinata, io ero andata nella sua stanza per parlargli non ricordo più di cosa, ma niente di importante. Non lo trovai nella stanza e ritornai dopo un po'. Non c’era ancora e chiesi dove fosse, un commesso mi rispose che era dal procura­tore. E poi lo trovai nella stanza nella tarda mattinata, era già oltre l’una, saranno state l’una, l’una e un quarto, l’una e venti. E siccome era impegnato perché c’erano delle persone, io gli feci soltanto un cenno e gli dissi ci sentiamo dopo. Poi lui mi telefonò. Gli ho parlato e mi ha impressionato il tono, il tono di voce, perché era proprio molto molto abbattuto... » Altra voce, è un membro della commissione del CSM: « Si ricorda approssimativamente il giorno ? » La Sabatino: « Sì, era sicuramente fine giu­gno, era fine giugno ». « Se 29 giugno, lu­nedì, o 28, o 27 ? » « No, no, in questo momento davvero non mi ricordo ». Saba­tino: « Non me lo ricordo perché non c’era un motivo particolare. Io proprio mi ri­cordo che quella sera rimasi impressionata dal tono di voce che non era usuale, quindi lui mi ha chiesto quasi scusa, ha detto: “Non ti ho potuto telefonare oggi”. “Ma figurati”, gli ho detto, “Non era niente di importante, poi ci vediamo”. Mi disse però che il giorno dopo doveva partire forse per Roma ». 

Effettivamente Paolo Borsellino il 30 e l’1 luglio risulta essere a Roma a interro­gare Gaspare Mutolo e il Leonardo Messina assieme al dottor Vittorio Aliquò. 

Quindi si stabilisce nel corso delle do­mande che il giorno era il 29 e allora qui abbiamo la parte in cui dice: « Poi io per fargli una battuta gli dissi: “Piuttosto, Pa­olo, so che oggi sei stato in buona compa­gnia, con il capo” ». E lui anziché rispon­dermi in tono scherzoso ha continuato sullo stesso tono e mi ha detto una cosa che mi aveva impressionato un po' perché mi ha detto: « Ah, oggi è stata una cosa brutta e ci sono stati momenti in cui mi sembrava di essere tornato ai vecchi tempi, di quelli peggiori ». E ha poi troncato il discorso dicendo: « Va be', poi ti conto », cioè: « va be' poi ti racconto ». 

Quindi Paolo Borsellino in quella gior­nata del 29, oltre a risolvere il problema, deve contrattare col suo procuratore quale formula organizzativa adottare per otte­nere in qualche modo la gestione del fa­scicolo relativo a Mutolo. Arrivano a una conclusione alquanto bizzarra, cioè la tito­larità resta in capo a Vittorio Aliquò, al dottor Guido Lo Forte e al dottor Gioac­chino Natoli, i quali – a penna scrive Giammanco – « si coordineranno con il dottor Borsellino ». 

Il dottor Borsellino, che conosceva an­che lui le formule organizzative, dice: « Ma che significa, sono titolare o no ? Devo andare a raccogliere l’interrogatorio. Posso io dare deleghe di indagine, non le posso dare, devono riferire a me ? » Insomma, era una formula assolutamente nuova e che comunque non aveva alcun significato. In­fatti il dottor Borsellino si reca a interro­gare Mutolo il primo giorno, va lì, quello lo vede arrivare e dice: « No, io non parlo con Aliquò ». « No, lei deve parlare ». Infatti verbalizzano, in modo tale da non offen­dere giustamente il dottor Aliquò. E dice: « Io sono disposto a parlare anche in pre­senza del dottor Aliquò ». Ma chiaramente tu stai mettendo il collaboratore nelle con­dizioni di non parlare, se vuoi proprio francamente saperlo, se ti comporti così. 

Gli ultimi due interrogatori sono del 16 e del 17, e lì succede una cosa secondo me incredibile. Succede che vanno lì il 16 e il 17 in compagnia del dottor Guido Lo Forte e del dottor Natoli e il dottor Borsellino, ci dice il dottor Lo Forte e ce lo conferma anche il dottor Natoli, dice: « Con loro è come se lei parlasse con me, parli anche di fronte a loro, stia tranquillo, non c’è pro­blema ». Quindi fanno l’interrogatorio, però c’è sempre questa benedetta formula orga­nizzativa per cui il dottor Borsellino in realtà è quasi un intruso da dentro. Tant’è che a un certo punto Borsellino il 17 mat­tina si incavola e dice: « Interrompo l’in­terrogatorio » e questo emerge dai verbali, questo noi non l’abbiamo mai saputo da nessuna parte. Dice: « Io non voglio fare lo specchio per le allodole per nessuno, qua o entro come titolare del fascicolo o non entro ». Ecco allora che intervengono il dottor Lo Forte e il dottor Natoli: « Ci pensiamo noi, parliamo noi con Giam­manco ». Fanno la telefonata, questo il 17, e dicono: « Paolo, non c’è problema, avrai la delega ». 

Con tutto il rispetto per l’amicizia con cui magari il dottor Lo Forte e il dottor Natoli l’hanno fatto, io considero estrema­mente umiliante che due magistrati più giovani debbano chiedere al capo di inter­cedere per un procuratore aggiunto dello spessore di Paolo Borsellino. Questa è una mia considerazione che vi rassegno e pren­detela per quella che è. 

Allora succede che Paolo Borsellino deve tornare a Palermo nel primo pomeriggio e Natoli e Lo Forte continuano l’interroga­torio. La mattina del 18, cioè un giorno prima della strage, Paolo Borsellino ha finalmente la delega formale, e questo ce lo dicono due testimoni qualificati che sono il dottor Vittorio Teresi e la dottoressa Prin­cipato, e poi ce lo dice un elemento ogget­tivamente importante fattuale. Nella borsa di Paolo Borsellino il 19 luglio, ce lo dice il dottor Vittorio Aliquò nel verbale della commissione, vi era il fascicolo di Mutolo. Quindi Paolo Borsellino andò la mattina a prendersi il fascicolo una volta ottenuta l’assegnazione e lo trovano nella borsa di Paolo Borsellino, così come da verbale di sequestro cui fa riferimento Vittorio Aliquò nella sua audizione in commissione. So­prattutto, ripeto, valgono le dichiarazioni di Vittorio Teresi rese in commissione e rese davanti alla procura della Repubblica di Caltanissetta e valgono le dichiarazioni della dottoressa Teresa Principato. « Paolo ci disse che finalmente aveva avuto la de­lega sul fascicolo Mutolo ». Questo, e con­cludo, depotenzia tutte quelle ricostruzioni volte ad attribuire alla telefonata del 19 luglio del 1992 la composizione della que­relle legata all’assegnazione formale del fa­scicolo di Gaspare Mutolo. 

PRESIDENTE. Io vorrei dire una sola cosa perché non credo che ci sia molto da aggiungere, prima di riprendere questa au­dizione in una data concordata, il prima possibile perché si possa concludere e per­ché i commissari possano fare le loro do­mande. Credo che noi dovremmo chiedere 

perdono se non siamo riusciti in tutti que­sti anni a dare una risposta alle tante domande che fin qui avete posto, e lo avete fatto con sofferenza e amore che ci avete trasmesso. Abbiamo sentito il cuore bat­terci nei timpani. Quindi, riprendendo quello che diceva all’inizio, vorrei che di questa Commissione non si avesse mai a dire che 

non si è fatto quello che si doveva fare. Grazie a tutti. 

La seduta termina alle 15.45. 

Licenziato per la stampa il 15 gennaio 2024


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